
Imany
Dall’intervista di Laura Piccinini su D la Repubblica, 27.05.2023
Che diavolo di voce è?
di Laura Piccinini
La voce di Imany vibra e colpisce su Zoom. «Ma prima che ti dicano che hai una voce grandiosa, sei stata la ragazzina con il vocione», racconta adesso. Era quando si chiamava Nadia Mladjao e «a scuola, anche se sapevo la risposta, non alzavo la mano per non stare al centro dell’attenzione, “che diavolo di voce è?”. Per tantissimo tempo l’ho odiata. Quella che sentite adesso ce l’ho da sempre, da quando avevo 4-5 anni, non è una cosa che mi è venuta dopo», dice ironica in felpa Adidas leopardata, simbolo pure quella della sua identità. Imany arriverà in Italia il 1° luglio dove porterà il suo spettacolo Voodoo Cello al Festival dei Due Mondi di Spoleto (Piazza Duomo). La cantante francese di origini comoriane, definita un misto tra Billie Holiday e Tracy Chapman, è una “Grace Jones più soft” che da picccola, oltre a essere eccessiva nella voce, era anche troppo alta. Così è diventata, nell’ordine: promessa del salto in alto, modella dell’agenzia Ford «nella NY ancora fantastica degli Anni Zero», finché ha assecondato la vocazione originaria di cantante ed è stato «l’inizio di tutto».
Cantante, musicista o performer?
«Artista è la definizione migliore, non tanto perché con il web si è generalmente più cose insieme ma perché si è sempre il prodotto di tanti tentativi e vite. Con la musica mi ha aiutato la disciplina della mia vita atletica precedente, se sei nella nazionale devi provare e riprovare finché non domini la pratica davanti a coach, giuria, pubblico. Con la moda i centimetri contavano meno che nel salto in alto, il criterio per essere scelta era decisamente meno matematico ma facevi l’abitudine a essere scartata e riprovare, decine di cast al giorno mostrando il book come dovessi vendere tua madre».
Tra i due alla fine ha scelto...?
«Se dovevo essere schiava di un lavoro – anzi due, perché da modella guadagnare non era un problema, ma dovevo comunque arrotondare la sera come barista - ho pensato che fosse meglio ammazzarmi per qualcosa per cui valesse la pena. Non c'è newyorkese la cui preoccupazione non sia pagare affitto e bollette. Non c’era la facilità a essere autodidatti che danno i social, ma nella mia cerchia qualcuno era amico di un amico di un coach».
Anche se ha scoperto che non avere tecnicismi alla Céline Dion la rende autentica...
«Mi è sempre piaciuto il modo di fare musica di Tracy Chapman, il suo talento è la semplicità con cui racconta il suo personale per spezzarti il cuore e poi guarirti. La musica è una DirectLine che ti permette di avere le conversazioni che senti più urgenti con il pubblico».
Tipo?
«L'endometriosi. È un disturbo che colpisce tantissime donne, compresa me. Nessuno ne parlava e io ho invece deciso di raccontarla in un brano. Ma ho scritto anche di empowerment sentimentale, DonT Be So Shy, ispirandomi alle otto violoncelliste della mia band, tutte leader».
Gli algoritmi cosa fanno alla musica?
«Sono un bel pericolo, Non ne abbiamo bisogno. Dovremmo essere i nostri algoritmi. Smettere di seguire il prossimo nome che ci segnala il web perché è il nostro genere. La persona che non fa per noi ci aiuta a cambiare o a crescere. Mi chiedo se gli algoritmi avrebbero dato l’ok a Bohemian Rhapsody dei Queen, all’epoca già i discografici opposero una lunga serie di no... Poi però, per fortuna, gli “umani” tornarono sui loro passi».
E TikTok sta cambiando la musica?
«Diverse etichette discografiche dicono ai musicisti che se la baseline di una traccia non attacca dopo 12 secondi non funziona. Una volta pensavi solo a tirare fuori un album unico, adesso aspetti che il pubblico ti dica di cosa ha bisogno».
Oggi fare l'artista che lavoro è?
«Ci sono troppi pieni e troppi vuoti, ma se non sono in tour sono pur sempre madre di un “anziano” settenne che io e mio marito produttore musicale abbiamo chiamato Isaiah perché suonava bene e che fosse un profeta dell’Antico Testamento non mi è spiaciuto, non sono religiosa, spirituale sì. E mia figlia di tre anni si chiama Zola Assaman che in wolof significa cielo. Imany invece sta perfede, credere, anche in se stessi».
Adesso la sua voce le piace?
«Imparare ad ascoltarmi è stato difficilissimo. Come reimparare ad amare me stessa. Un bel
giorno, però, alla fine di una giornata in studio a registrare, mi dico: “Wow”. È bello essere toccati dalla propria voce».