Benjamin Millepied

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INTERVISTA A BENJAMIN MILLEPIED

di Maria Luisa Buzzi

Millepied, ci spiega il titolo Unstill life? Vita immobile o vita mai ferma?

Il titolo rispecchia la mia vita, piena di capitoli differenti, sempre in movimento. Sono nato in Francia, a Bordeaux, sono cresciuto in Senegal, ho studiato a Lione, ho vissuto a New York, Los Angeles e ora sono nuovamente in Francia, a Parigi anche se continuerò a superare l’Atlantico. Nel titolo c’è tutto quello che mi abita e che ha fatto la mia singolarità. Ho l’impressione di avere avuto molte vite.

È una sfida per lei tornare in scena dopo tredici anni in cui si è dedicato alla coreografia per altri e al cinema?

Più che una sfida, è un bisogno, una necessità. Ho smesso troppo presto di danzare. Ho sentito il desiderio di tornare sul palcoscenico, anche perché se non lo faccio ora, quando? Voglio rivivere ancora una volta quella sensazione unica con il pubblico, quel rapporto ineguagliabile con lo spazio che solo il danzare può dare... Grazie alle esperienze avute in passato, stare in scena per me ora è puro piacere.

Tra lei e Alexandre Tharaud sulla scena c’è una complicità magnifica. Come siete arrivati a questo punto?

Alexandre non è semplicemente un interprete che mi ha toccato con le sue incisioni: ha una sensibilità poetica, una finesse di scelte e approccio unico al repertorio. Inoltre possediamo un medesimo punto di vista verso l’espressione musicale.

Unstill Life si conclude con la Sonata n. 32 op. 111 di Do minore di Ludwig van Beethoven. Ultimo lavoro del compositore per piano, composto a cinquant’anni e già sordo. Una riflessione sull’età che passa?

Sento il limite fisico, ma so anche che con la maturità si possono aprire nuovi spazi, e nuovi effluvi. Beethoven è un compositore che incute timore, la sua opera è così monumentale! Nella mia carriera ho coreografato soltanto la Sonata per pianoforte n. 23, l’Appassionata, all’Opéra del Paris nel 2016, nient’altro. Adoro la Sonata n. 32, così ricca di emozione, sospesa tra morte e rinascita e penso persino pervasa di speranza nonostante la sordità lo avesse già allontanato dal mondo. Mi sembra che qui il suo malessere e le sue emozioni si siano trasformate in musica per continuare a vivere. Dal punto di vista stilistico poi, mostra una grande creatività, una struttura meno classica, più libera. Modernissima.

L’influenza di George Balanchine, indefesso sostenitore di un rapporto di simbiosi tra danza e musica, sul suo processo compositivo è qui molto evidente. Mi conferma che anche per lei, come per Balanchine, la danza deve “visualizzare” la musica?

Assolutamente sì, sono d’accordo con Balanchine. La danza deve immergersi nel mondo e nello spirito del compositore e mostrare le differenze tra gli autori: danzare Rameau è diverso da Bach o Satie. Con Alexandre abbiamo scelto brani musicali che ci ispiravano e che anche io ho suonato in passato. Danza e musica devono diventare un tutt’uno.

Nello spettacolo introduce un’altra delle sue passioni, il video, anche in presa diretta.

Il video e la tecnologia sono parte del mondo di oggi, ma per me sono sempre stati una passione anche creativa. Se così non fosse non mi sarei messo a dirigere un film.

Le mani al centro delle riprese…

La tastiera su cui volano le mani di un pianista rappresenta sempre un miracolo per me. Per questo le filmo durante lo spettacolo. Anche nel balletto sono importantissime, danno espressività, creano i gesti.

Mi piacciono molto le mani; sono sempre state importanti a partire da quel momento della mia vita nel quale il pianoforte mi ha chiamato a sé, anche se poi l’attrazione per il corpo si è dimostrata più forte.

Il nome di Jerome Robbins, grande coreografo e maître de ballet che l’ha scoperta a New York, è legato anche al Festival di Spoleto. Quale fu il suo rapporto con lui?

Lo conobbi ai tempi della Scuola dell’American Ballet in occasione di una sua coreografia per gli allievi, 2&3 Part Inventions su musica di Bach. Avevo 16 anni, il mio primo balletto, ricordo che rimase colpito dal mio modo di danzare. Entrato in compagnia ho poi danzato tutti i suoi lavori in repertorio al New York City Ballet compreso il suo ultimo successo Les Noces di Stravinsky nel 1998. Grazie a lui conobbi Aidan George Mooney, un uomo curioso, intelligente che amava l’arte sotto tutti i punti di vista, grande amico di Jerome. Aidan possedeva una casa nei pressi di Spoleto dove trascorreva le estati. La mia prima volta a Spoleto fu proprio con lui: sono molto felice di tornare a Spoleto a danzare.

Il ruolo dell’improvvisazione nel pezzo?

Beethoven è totalmente improvvisato. Mi prendo molte libertà nel corso dello spettacolo, ma c’è una struttura ben definita. Rameau ad esempio è tutto coreografato nel dettaglio.

Un commento su queste tre parole che caratterizzano a mio avviso Unstill life? Infanzia, gioco, maturità.

Il pezzo, come la vita, è tutto una variazione sul tema. Quindi un gioco. Stare in scena si dice jouer in francese. C’è gioco con la struttura, con lo spazio, con la presenza, con i nostri ricordi di infanzia. L’infanzia poi ha a che fare con la danza perché tutti i bambini spontaneamente danzano.