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Rufus Wainwright
Canto l’amore gay
di Carlo Maria Cella – Classic Voice
Il Festival dei Due Mondi di Spoleto mette in scena Hadrian,“grand opera in 4 atti” composta nel 2017, nata in Canada nel 2018, riallestita dal Teatro Real di Madrid nel 2022 e oggi in Italia per la prima volta. L’autore è Rufus Wainwright, classe 1973, nato a New York, cresciuto a Montreal, canadese di cuore e di testa, songwriter che ha avuto a che fare con Elton John, Burt Bacharach, David Byrne, Boy George, Joni Mitchell, Robbie Williams, Billy Joel, Paul Simon, Sting.
Di quale Adriano racconta Wainwright? Dell’imperatore che ha esteso i confini di Roma fino alla Britannia, esteta, cultore della bellezza, per sei anni perdutamente innamorato di Antinoo, giovane e bello, annegato durante una navigazione sul Nilo, forse ucciso o suicida.
«Io volevo davvero creare questi due personaggi, Antinoo e Adriano, come figure più grandi della vita, con cui un uomo gay potesse davvero identificarsi, e se non potesse identificarsi, almeno potesse sognarli».
Eravamo sicuri. O quasi. Il tempo dell’Opera è finito con Turandot. Tra l’altro incompiuta forse non solo perché Puccini è morto. Ma allora da dove viene questa frenesia operistica che serpeggia in ogni angolo della musica?
In maggio Santa Cecilia ha ripreso, in forma di concerto, Writtenon Skin di George Benjamin, che da quando è apparsa nel 2012, giudicata “l’opera del secolo”, ha avuto circa cento rappresentazioni. La Scala, con Milano Musica, ha prodotto nello stesso mese Il nome della rosa, opera nuova di Francesco Filidei che andrà anche a Parigi.
Il Requiem può essere un modello di ciò che ascolteremo in Hadrian, anche se l’ha composto sei anni dopo, nel 2024?
«Giusto. Probabilmente il Requiem è più, come posso dire, complesso e articolato. Non voglio necessariamente definirlo il mio capolavoro, ma se non dovessi mai più comporre un altro pezzo classico, aver scritto il Requiem mi renderebbe soddisfatto del mio lavoro nel mondo della musica classica. Intendo scrivere ancora, molte cose, ma se dovessi fermarmi adesso, sarei soddisfatto grazie al Requiem. Per quanto riguarda Hadrian, è davvero una parte integrante del percorso verso il Requiem. È un’opera piuttosto imponente e si sente che cerco di espandere il mio vocabolario orchestrale e anche musicale. Molte volte funziona, a volte forse mi spingo un po’ troppo oltre. Ma trovo tutto ciò interessante. Sento che Hadrian non è perfetta come il Requiem, ma mostra chiaramente la mia crescita come compositore e il fatto che mi metto davvero alla prova. Ed è emozionante sentirlo in un brano musicale”.
L’opera che precede Hadrian, Prima Donna, non è in realtà la prima a cui ha pensato.
“No, in realtà volevo scrivere prima Hadrian, ma non sentivo di avere le capacità per farlo”.
Comunque ha coltivato prima il progetto più ambizioso.
“Beh, quello che è successo è che volevo scrivere Hadrian, ma sapevo che non potevo farlo. Non avevo ancora la formazione né le capacità, quindi ho deciso di metterla da parte. Ho trovato il soggetto di Prima Donna e ho sentito che era molto più affrontabile. Quello potevo morderlo e masticarlo. Così ho cominciato a comporre Prima Donna, un’opera molto speciale per me perché è perfetta a modo suo, non è incredibilmente ambiziosa anche se è molto sottile, molto intima, ed esprime le mie passioni romantiche. Sento qualcosa in quell’opera che la fa stare da sola. Hadrian è però molto più che un ponte tra Prima Donna e il Requiem, in un certo senso è forse la mia preferita proprio perché è così insolita e si percepisce che in questi anni ho acquisito una nuova maestria, particolare dal punto di vista orchestrale. Ho lavorato davvero molto su questo. E poi, ovviamente, una delle cose più importanti è l’equilibrio: sapere scrivere in modo che i cantanti possano essere uditi sopra l’orchestra, e su questo ho lavorato tantissimo. Penso che, se c’è qualcosa che mi ha aiutato, è stata la mia tenacia nel voler continuare a lavorare in quell’ambito, che nel mondo della classica non è particolarmente aperto o accogliente. È un ambiente freddo. Ma non mi dispiace poi tanto, perché mi ha costretto a fare un passo in più e a impegnarmi oltre i miei limiti. Ho tenuto duro e, ad esempio, quest’anno stanno mettendo in scena Prima Donna a Stoccolma con la Royal Opera House svedese. Quindi tra il 2025 e il 2026 in Europa eseguiranno tutte e tre le mie opere: Hadrian, Requiem e Prima Donna. Non credo si possa chiedere di meglio, come compositore, che vedere le proprie tre opere principali eseguite nello stesso anno”.
Ci sono tutti gli elementi-chiave dell’opera lirica in Hadrian: amore, potere, fragilità interiore, morte, morte improvvisa. Come dare respiro a tutti questi elementi?
“Beh, non hai scelta se vuoi raccontare una storia di quel tipo, con quelle ambizioni e quella profondità. E anche con quella grandiosità, soprattutto se ambientata nell’Impero Romano: devi davvero ‘consegnarti’, come si dice, e l’ho fatto. Mi sono applicato a fondo. Sai, la mia principale ispirazione è stata però questa: io sono un uomo gay, sono omosessuale, e ho amato l’opera per la maggior parte della mia vita. Molti uomini gay hanno attraversato la storia per centinaia di anni, ma non ci sono mai stati protagonisti gay nelle grandi opere. Non c’è un Tristano e Isotta o un’Aida gay. Io volevo davvero creare questi due personaggi, Antinoo e Adriano, come figure più grandi della vita stessa, con cui un uomo gay potesse davvero identificarsi, e se non potesse identificarsi, almeno potesse sognarli”.
Presumo che Marguerite Yourcenar sia stata importante in questo progetto.
“Sì, ho letto le sue Memorie di Adriano quando ero abbastanza giovane, ed è stato il seme di quest’opera. L’opera però non è basata sul libro di Marguerite. Ho studiato testi storici, ho visitato diverse volte Villa Adriana a Tivoli, dove loro vivevano, mi sono immerso nel mondo di Adriano e Antinoo”.
Come descriverebbe il suo stile e l’attrezzatura tecnica come compositore?
“… beh, in questo momento mi considero un ‘conservazionista’. L’arte in generale, l’arte alta, la musica classica e le arti visive hanno vissuto nel XX secolo un vero e proprio momento iconoclasta, in cui tutto è stato smantellato e in molti modi decomposto o de- costruito. Sento che ora siamo in un periodo simile a quello che viviamo in rapporto all’ambiente, la foresta e gli alberi, dove dobbiamo cercare di salvare le cose. Dobbiamo raccogliere i pezzi e provare a creare di nuovo bellezza, cercare di fare una musica di cui l’umanità ha bisogno per continuare a sopravvivere. Questo non significa che non ami o adori Schoenberg. Amo le grandi opere di tutti i periodi, ma penso che ora sia il momento di usare ogni tipo di colore disponibile per riassumere molto di tutto questo. Oggi possiamo ascoltare compositori precedenti al XX secolo, come Bach, dieci volte al giorno su un album. Viviamo in un periodo interessante in cui possiamo usare tutti i colori di tutte le epoche. Penso che questo sia un po’ il mio lavoro, creare il disco dei miei sogni”.
Il suo Requiem è un omaggio a Verdi con una curiosa dedica a Puccini, ma non è Giacomo, bensì a un cane che ha chiamato così. Seriamente o per scherzo, l’opera italiana fa parte del suo orizzonte culturale e musicale. Perché e da quando?
“È cominciato proprio con il Requiem di Verdi. Avevo circa 13 anni quando ascoltai una registrazione con Leontyne Price e Jussi Björling. Dopo due ore di ascolto ero completamente cambiato. Da quella sera sono diventato un appassionato d’opera e il giorno dopo è iniziato il mio viaggio, un viaggio che continua an- cora oggi. Tutto è iniziato con il Requiem di Verdi e poi è proseguito opera dopo opera. Mi sono tuffato nel profondo ed è stata un’esperienza meravigliosa. Sapevo fin dall’inizio che sarei diventato un musici- sta pop perché, francamente, era più divertente, ma ho mantenuto la mia passione per l’opera e ora cerco di restituire un po’ a quel genere, perché mi ha dato tanto. Vado sempre all’opera, è davvero come la mia religione o la mia chiesa. Il teatro d’opera è il posto dove sono stato più felice e anche più triste, una casa della fantasia”.
Le fotografie di Robert Mapplethorpe fanno parte dell’opera fin dall’inizio?
“No, l’idea di Mapplethorpe è venuta da mio marito, Jörn Weisbrodt, che fa la regia di questa produzione. È un regista favoloso, ha lavorato molto con Robert Wilson, specialmente nella ripresa mondiale di Einstein on the Beach, e con Marina Abramovic. È nato ad Amburgo ed è stato per anni nello staff arti- stico della Staatsoper di Berlino, vicino a Mussbach e Barenboim. È stato davvero suo il concept di combinare l’opera con le immagini di Robert Mapplethorpe. Un colpo di genio, perché c’è una vera somiglianza sia con la mia musica che con l’estetica romana. A essere completamente onesto, la visione di Mapplethorpe è an-che molto pratica. La prima produzione di Hadrianin Canada era sfarzosa, con costumi e grandi scenografie, ambientata in Egitto, dove Antinoo morì. Ma avere le immagini di Mapplethorpe è altrettanto coinvolgente: catturano l’immaginazione”.
C’è un’altra colonna d’Ercole nel suo orizzonte, Schubert. Immagino per i Lieder.
“Sì. Scrivere canzoni è il mio pane quotidiano ed è il luogo in cui vivo pienamente la mia vita emotiva. Sento Schubert e me come fratelli. Ovviamente amo Mahler, Strauss, tutti loro, e Verdi, e cerco di imitarli o comunque di aspirare a loro. Ma con Schubert sento che siamo semplicemente cantautori che cercano di andare avanti nella vita”.
Si sente più canadese o americano?
“Beh, in questo momento mi sento sicuramente più canadese. Sono molto orgoglioso di essere canadese, con tutto quello che sta succedendo. Combatterei sicuramente per il Canada se venisse attaccato dagli Stati Uniti. Però penso che sia importante restare negli Stati Uniti adesso, per essere coinvolti nel processo, essere al centro della tempesta. Non lascerò gli Stati Uniti per il momento”.
L’opera di un “pop musician” si addice a un festival “dei Due Mondi”. Gian Carlo Menotti è stato quasi un pioniere di libero scambio Europa-America e di molte libertà nella musica contemporanea: melo- dia, tonalità, distanza dal serialismo che dominava gli anni Cinquanta e lo guardava con degnazione.
“Mi sento molto a mio agio nel festival di Spoleto proprio per questo motivo. Ha una traiettoria unica, che viene dall’esempio di Menotti”.