William Kentridge © Norbert Miguletz
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William Kentridge
"Solo fallendo posso trovare buone idee"
di Rodolfo Di Giammarcola Repubblica

William Kentridge, nato a Johannesburg nel 1955, è artista visivo e regista, acclamato per i suoi spettacoli che fondono film d’animazione, disegno, performance e musica. «Non cerco di celebrare qualcosa, ma di mettere insieme le contraddizioni, le lotte e i desideri», afferma.
Dopo opere come Refuse the Hour e The Head & the Load, torna al Festival dei Due Mondi di Spoleto con The Great Yes, The Great No, che affronta la condizione europea e l’esperienza del dubbio. Kentridge ha sempre guardato alla storia come un territorio di ombre, all’apartheid e ai conflitti, «a ciò che resta in un luogo dopo che la storia ufficiale è passata».
Il nuovo lavoro si compone di disegni, filmati, narrazione e musica dal vivo, ed è, nelle sue parole, «un invito a entrare nel pensiero, nella riflessione, nel momento prima che le certezze si definiscano».

Mr. Kentridge, nel suo disegno per Spoleto con fisionomie di donne e uomini risaltano volti neri, bianchi, un uccello rapace e una caffettiera. Che rappresentano?
«Sono lineamenti di maschere di cartone nel nostro spettacolo, e più in generale simboli del surrealismo, con tipologie di personaggi storici. Frammenti diversi, un'identità del mondo è impossibile».

A Spoleto lei firma The Great Yes, The Great No: come è costruito questo lavoro fra teatro, oratorio e opera da camera?
«Combino impulsi. Mi servo d'un coro di cantanti donne e di sagome e pupazzi. Nell'assemblare voci e immagini mi sono imbattuto nella storia d'un viaggio da Marsiglia alla Martinica. La lingua del palco s'è incontrata col tema della migrazione e con l'odierno colonialismo. Gli esodi sono tre: quello dei fuggiaschi nel 1941 dalla Francia di Vichy; quello, con Giuseppina Bonaparte a bordo, dei viaggi transatlantici precedenti in cui gli africani venivano trasferiti nelle Americhe per finire in schiavitù nelle piantagioni; e quello dei clandestini che s'arrischiano oggi ad attraversare i mari in cerca d'un mondo migliore, a costo di accoglienze peggiori».

In un episodio della sua mostra Self Portrait as a Coffeepot le marionette evocavano la Rivoluzione russa e la repressione stalinista. Cosa pensa della guerra tra Russia e Ucraina?
«Da prima dell'Unione Sovietica c'erano filoni molto profondi di autoritarismo in Russia: sono riemersi, e oggi diventano l'eco di governi forti degli Stati Uniti che testano i limiti della propria autocrazia».

Come va letta la sua dichiarazione "Il digitale mi piace ma preferisco la stilografica"?
«C'entra la mia età. Da studente si scriveva a macchina, poi sono arrivati i computer. Ma io non ho mai "pensato" battendo dei tasti. So bene che quasi ogni scrittore crea usando la tastiera. Io non mi rifiuto di farlo, ma opto per la scrittura a mano, con la mia stilo. L'inchiostro della penna si sparge nella pagina, e quel contatto aiuta il mio processo inventivo. Mi piace l'illeggibilità della prima calligrafia».

Che relazione c'è tra testo e disegno, parola e immagine, messaggio e arte? Negli 8 schermi di 40 metri della sua videoinstallazione More Sweetly Play the Dance lei mostrò che danzando si esorcizza la morte.
«Tendo a frammentare il mondo e a ricomporlo, verificando se risponde a certe domande. Qualcuno mi disse che Lulu di Alban Berg cui mi stavo dedicando poteva essere vista come una danza macabra, e io mi sono documentato scoprendo la danza ininterrotta delle figure medievali di Fians Ffolbein, che danzavano contro la morte».

Se i disegni rappresentano un estendersi di memoria, qual è la sua idea dell'Intelligenza Artificiale?
«Dopo decenni e secoli di sforzi umani per dare senso al mondo siamo tallonati da tecniche che hanno la velocità della luce. Non so se un algoritmo potrà sostituire l'umanità. I pericoli verranno da cattivi attori, criminali o Stati che potrebbero manipolare le cose».

Nel 2016 ha impresso il suo fregio Triumphs and Laments, progetto di "sparizione della patina del tempo", su 550 metri di sponde del Tevere sapendo che poi Romolo e Remo, Mastroianni e Pasolini sarebbero stati cancellati dal meteo. L'arte è così provvisoria?
«Può sopravvivere per secoli, o essere molto vulnerabile. Certe sculture possono essere fatte saltare in aria con facilità, come è successo. A Roma, città che amo, lo sporco e i batteri del travertino hanno reinghiottito presto le figure. Sapevo che era un progetto effimero».

Sappiamo che ama Italo Svevo. È l'unico provvisto di "valori assoluti"?
«Era stupefacente che La coscienza di Zeno, scritta nel 1923, contenesse ciò che provavo io da diciottenne, con la somiglianza tra due città periferiche come Trieste e Johannesburg, e con l'autoironia sull'impossibilità di smettere di fumare...».

Ha detto che nei suoi quaderni di schizzi s'annidano tanti pensieri: potremmo conoscerne alcuni?
«A 20 anni avevo un mantra che mi negava d'essere artista, facoltà che attribuivo solo a chi viveva in una soffitta di Parigi o New York. Poi ho compreso che le buone idee fioriscono anche ai margini, dai fallimenti, tant'è che ho fondato a Johannesburg il Centre for the Less Good Idea per gli apprendisti insicuri. A volte ho il tavolo pieno di frasi, ritagli e silhouette che aspirano ad essere personaggi d'una commedia. Anch'io sono a modo mio un praticante».