Abituati a duettare con i cantanti del teatro d’opera più famoso al mondo, i musicisti del quartetto d’archi del Teatro alla Scala sanno più degli altri come far cantare i loro strumenti. Ospiti a Spoleto per la prima volta, ci invitano nel mondo sonoro del quartetto “delle arpe” di Beethoven, così soprannominato per la quantità di pizzicati che si trovano ad eseguire. Segue l’intensità del quartetto n. 8 di Šostakovič, dedicato alle vittime del fascismo e della guerra. Così diceva il suo autore: «Troppi sono stati sepolti in posti ignoti. Dove mettere le lapidi? Solo la musica può farlo per loro».
Quartetto della Scala
Francesco Manara, violino
Daniele Pascoletti, violino
Simonide Braconi, viola
Massimo Polidori, violoncello
Ludwig van Beethoven
Quartetto per archi n. 10 in mi bemolle maggiore, op. 74 “delle arpe”
Poco Adagio. Allegro
Adagio ma non troppo
Presto
Allegretto con variazioni
Dmitri Šostakovič
Quartetto per archi n. 8 in do minore, op. 110
Largo
Allegro molto
Allegretto
Largo
Largo
INFORMAZIONI
Si avvisa che le date e gli orari potranno subire variazioni.
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Un ponte tra due mondi: musica e impegno civile
Nel cuore della produzione cameristica di Beethoven, il Quartetto op. 74 segna una tappa significativa: composto nel 1809, in un periodo in cui Vienna era sotto l’assedio napoleonico, riflette quella tensione sotterranea tra intimità e turbolenza che caratterizza molte opere del periodo centrale del compositore. Il brano, dedicato al principe Lobkowitz, mecenate e protettore di Beethoven, è noto come “quartetto delle arpe” per via delle figurazioni in pizzicato dei violini, che evocano il timbro etereo dello strumento a corde pizzicate per eccellenza.
L’opera fa parte di un corpus di diciassette quartetti che, attraversando l’intero arco creativo del compositore, rappresentano non solo una vetta assoluta della musica da camera, ma anche uno dei luoghi più intimi e speculativi del pensiero musicale beethoveniano. Qui, forse più che altrove, Beethoven affida alla scrittura quartettistica un linguaggio libero da convenzioni, capace di unire rigore formale e profondità espressiva, razionalità architettonica e impeto visionario. La forma del quartetto diventa così un vero e proprio laboratorio spirituale, dove il suono si carica di valori etici ed esistenziali.
Il Poco Adagio iniziale pare sospeso, quasi esitante, percorso da un senso di attesa che si infrange nell’Allegro, risoluto e dinamico. Qui il pizzicato diventa elemento strutturale, intervallando blocchi armonici con un gioco timbrico sottile, e il primo violino si lancia in slanci virtuosistici che si trasformano in dialoghi cameristici serrati. In questa varietà di gesti musicali si riflette la modernissima tendenza beethoveniana a generare forme elastiche, quasi narrative, dove il contrasto non è solo formale ma profondamente emotivo.
Il secondo movimento, Adagio ma non troppo, è un’oasi di lirismo e introspezione. La melodia, portata principalmente dal primo violino, è cullata da armonie morbide e pensose che sembrano aprire squarci su una dimensione contemplativa. Si tratta di un rondò nel quale ogni ritorno del tema assume nuove sfumature, quasi si trattasse di un volto che si svela lentamente sotto luci differenti.
Segue uno scherzo, Presto, dalla scrittura tesa e incisiva, che richiama – anche per tonalità e ritmo – il celebre motivo della Quinta Sinfonia, con quel battere insistente e ineluttabile del destino. Ma Beethoven sorprende ancora: il Trio centrale, Più presto quasi prestissimo, ha un carattere leggero e spensierato, rompendo l’atmosfera drammatica con un’inattesa ventata di freschezza. La conclusione, un Allegretto con variazioni, gioca sul contrasto tra un tema di semplicità disarmante e l’articolata esplorazione che ne segue. Ogni variazione apre una finestra diversa: dal gioco imitativo al lirismo cantabile, dalla tensione ritmica al contrappunto serrato, per chiudere in un Allegro frizzante e ironico.
Dietro l’apparente serenità di questo quartetto si cela una ricerca profonda: la musica diventa mezzo per interrogare l’umanità. Non è un caso che la figura di Beethoven, anche al di là della musica, sia stata assunta nel tempo a simbolo di libertà e di dignità morale, di resistenza all’oppressione e di fiducia nella forza della ragione e dello spirito umano. Il suo ideale di arte come testimonianza e verità – come «fuoco per l’anima», per usare una sua espressione – emerge con particolare nitore proprio nei suoi quartetti, in cui la scrittura si fa meditazione, confessione, tensione etica e filosofica. Il “quartetto delle arpe”, apparentemente lieve e luminoso, partecipa pienamente a questa visione.
Composto in soli tre giorni nel luglio 1960 a Dresda, il Quartetto n. 8 di Šostakovič è un grido silenzioso, un lamento inciso nella pietra della memoria collettiva. La città tedesca, ancora devastata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, agì come catalizzatore emotivo per il compositore, che dedicò l’opera “alle vittime del fascismo e della guerra”. Ma sotto la superficie di commemorazione ufficiale, si cela un sottotesto più intimo e personale. Šostakovič riempì il quartetto di autocitazioni, quasi a voler scolpire una propria autobiografia musicale in forma cameristica.
L’intera opera è pervasa dal tema DSCH – le iniziali del suo nome tradotte in note (re, mi bemolle, do, si) – che funge da ossessivo monogramma, firma musicale di un’anima che si interroga, denuncia e soffre. Fin dal primo Largo, questo tema emerge come un’incisione su marmo, dolorosa e inesorabile, in un paesaggio sonoro che sembra piangere le rovine non solo di una città, ma di un’intera civiltà.
Il secondo movimento, un Allegro molto angosciato e tagliente, pare inseguire spettri in fuga. Le citazioni da opere precedenti – tra cui la Prima Sinfonia e il Concerto per violoncello – non sono semplici reminiscenze, ma frammenti di memoria lacerata, schegge autobiografiche. Il terzo movimento, Allegretto, introduce un valzer deformato, sinistro, quasi caricaturale, mentre i successivi Largo si fanno più cupi e solenni, fino a concludere il percorso con una sorta di catarsi silenziosa, uno svanire nel nulla.
Il Quartetto n. 8 non è solo un monumento musicale alla sofferenza del XX secolo: è anche un gesto politico e personale. Composto in un momento in cui Šostakovič era stato costretto ad aderire al Partito Comunista, l’opera riflette il dissidio interno tra la coscienza e la propaganda. Le parole del compositore sono inequivocabili: «Provo eterno dolore per coloro che furono uccisi da Hitler, ma non sono meno turbato nei confronti di chi morì su comando di Stalin». Questo quartetto è dunque un atto di resistenza, un Requiem laico che unisce memoria individuale e dolore universale.
Nonostante il secolo e mezzo che separa Beethoven da Šostakovič, i due quartetti qui accostati si richiamano per la forza espressiva e per l’urgenza morale che li percorre. Entrambi gli autori, con linguaggi profondamente diversi, hanno vissuto la musica come veicolo di coscienza. Per Beethoven, l’anelito alla libertà e la tensione etica percorrono tutta la produzione, tra rivoluzione e utopia. Šostakovič, figlio del Novecento tragico, trasformò la sua arte in testimonianza, sublimando nella scrittura le ferite dell’anima e della storia.
Il Quartetto op. 74 di Beethoven guarda al futuro con razionalità luminosa e sentimento, mentre l’op. 110 di Šostakovič si confronta con le ombre del passato e del presente. Due modi diversi di dire “pace”, di gridare contro l’ingiustizia, di onorare la dignità umana.
In un’epoca che ancora conosce il fragore della guerra e il silenzio delle vittime, l’ascolto di questi due capolavori si fa atto di meditazione e, forse, di speranza.
Testo di Marco Ferullo
La prima formazione del Quartetto d'archi della Scala è storica e risale al 1953, quando le prime parti sentirono l’esigenza di sviluppare un importante discorso musicale cameristico seguendo l' esempio delle più grandi orchestre del mondo. Nel corso dei decenni il Quartetto d’archi della Scala è stato protagonista di importanti eventi musicali e registrazioni; dopo qualche anno di pausa, nel 2001, quattro giovani musicisti, già vincitori di concorsi solistici internazionali e prime parti dell’Orchestra del Teatro, decidono di ridar vita a questa prestigiosa formazione, sviluppando le loro affinità musicali già consolidate all’interno dell' Orchestra, elevandole nella massima espressione cameristica quale è il quartetto d’archi. Numerosi i loro concerti per alcune tra le più prestigiose associazioni concertistiche in Italia (MusicaInsieme a Bologna, Serate Musicali, Società dei concerti e stagione "Cantelli" a Milano, Associazione Scarlatti a Napoli, Sagra Malatestiana a Rimini, Festival delle Nazioni a Città di Castello, Settimane musicali di Stresa, Asolo musica, Estate Musicale a Portoguaro, Teatro La Fenice e Malibran a Venezia, Ravenna Festival, Amici della musica di Palermo, Teatro Bellini a Catania, Stagione del Teatro alla Scala, Teatro Sociale a Como ecc.) e all' estero (Brasile, Perù, Argentina, Uruguay, Giappone, Stati Uniti, Croazia, Germania, Francia, Spagna, Austria ecc.). Hanno collaborato con pianisti del calibro di Bruno Canino, Jeffrey Swann, Angela Hewitt, Paolo Restani e Bruno Campanella. Numerose le loro prime esecuzioni di compositori contemporanei quali Boccadoro, Campogrande, Francesconi, Digesu, Betta e Vlad. Nel 2008 fanno il loro esordio, con un concerto, al prestigioso Mozarteum di Salisburgo e nello stesso anno ricevono il premio "Città di Como" per i loro impegni artistici. Hanno inciso per l’etichetta DAD, Fonè, per la rivista musicale Amadeus, per il giornale La Provincia di Cremona dove hanno suonato i preziosi strumenti del museo e per Radio 3. Nel 2011 il loro disco dedicato ai quintetti per pianoforte di Brahms e Schumann registrato per la Decca è stato recensito “Cinque stelle cd Amadeus” dalla omonima rivista. Ha scritto di loro il Maestro Riccardo Muti: «quartetto di rara eccellenza tecnica e musicale (…) la bellezza del suono e la preziosa cantabilità, propria di chi ha grande dimestichezza anche con il mondo dell' opera, ne fanno un gruppo da ascoltare con particolare gioia ed emozione».
Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Gustav Mahler
Budapest Festival Orchestra, Iván Fischer